•  Giuseppe Ducrot è nato nel 1966 a Roma, dove vive e lavora.
    •  Curriculum
      • Mostre Personali
          1984
        • Dentro Casa, Galleria Carlo Virgilio di Roma, presentata da Bruno Mantura.
          1991
        • Ritratti in divisa, Galleria Carlo Virgilio di Roma, con un testo di Erri de Luca, allestita a luglio dello stesso anno per il XXXIV Festival dei Due Mondi, Palazzo Comunale di Spoleto.
          1995
        • Sculture 1992 - 1994, Magazzino d'Arte Moderna di Roma, presentata da Achille Bonito Oliva.
        • Sezione Partito Preso, Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, presentata da Bruno Mantura.
          2000
        • I cento passi, pastelli per il film "i Cento Passi", Galleria Carlo Virgilio, Roma, presentata da M. T. Giordana e A. Abruzzese.
          2006
        • Sculture sacre e profane, Officina Arte al Borghetto, Roma.
          2018
        • Movimento, Galerie du Passage, Parigi, Francia.
      • Mostre Collettive
          1980
        • Graffiti murali per la mostra sui vent'anni di teatro d'avanguardia T6080, Palazzo delle Esposizioni di Roma, a cura di M. Di Puolo.
          1996
        • Ultime Generazioni, Quadriennale di Roma.
          1998
        • Tre Scultori Romani: Canevari, di Robilant, Ducrot, Magazzino d'Arte Moderna di Roma.
        • Lavori in Corso 3, Galleria Comunale d'Arte Moderna di Roma, a cura di Giovanna Bonasegale.
        • Sculture Piccole, Galleria Bonomo, Roma.
          2002
        • Colpo di Testa, Associazione Culturale Maniero, Roma.
          2005
        • Rassegna Internazionale d'arte contemporanea, Polo Museale Civico diocesano, Sulmona.
        • Scultura Italiana del XX secolo, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano, Catalogo Skira.
        • Il ritratto interiore, da Lotto a Pirandello, Museo Archeologico Regionale, Aosta, Catalogo Skira.
          2011
        • Biennale di Venezia - Padiglione Italia, Venezia, Catalogo Skira
          2016
        • L'arte contemporanea a Montelupo Fiorentino, Fondazione Museo Montelupo, Montelupo Fiorentino.
          2017
        • Ceramica amica, Studio Geddes - Franchetti, Roma
        • Mostra in Corea
      • Commissioni pubbliche e private
          1996
        • Erma di Ninfa, per la fontana in Piazza Capo di Ferro, Roma.
        • Busto di Marc'Aurelio Giovane, per la facciata del Museo Borghese a Roma.
          2002
        • Busto reliquario in bronzo per la Croce di San Filippo Neri, chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Roma.
        • Ercole e l'Idra, Premio Unione Latina consegnato a G.M. Mozzoni Crespi - Presidente FAI.
          2003
        • Fiume, Premio Unione Latina, consegnato alla Dott.ssa Steganio Picchio.
        • Vaso Bacchico e due Cornucopie per lo scalone d'ingresso del Museo Borghese a Roma, in collaborazione con Vito Cipolla.
        • Altare, Ambone, Trono e Statua di San Benedetto per la Cattedrale di San Benedetto a Norcia.
          2005
        • Monumento a San Benedetto, Cassino.
        • Commissione della statua di San Giovanni Battista per la Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma.
          2006
        • Commissione per la Presidenza della Repubblica: scultura della Minerva Italica.
        • Busto commemorativo per il centenario della nascita di Ettore Majorana.
          2011
        • Benedizione e inaugurazione dell'Altare Centrale, Ambone e Crocifisso per la Cattedrale di San Nicola a Noto, Siracusa.
          2012
        • Benedizione e inaugurazione della statua di San Giovanni Battista per S. Maria degli Angeli, Roma.
          2016
        • Statua di S. Matteo, legno, Theatinerkirche, Chiesa di San Gaetano, Monaco di Baviera, Germania.
      • Testi critici
        • Alberto Abruzzese
          • ... E RACCONTA LA STORIA

            Gli incontri tra pittura e cinema sono infiniti e sono alla radice stessa del film per mezzo della fotografia. Infiniti sono anche gli incontri tra pittori e cinema. Qui non si tratta di forme ma piuttosto di poetiche; qui è la letteratura a proporsi come matrice: da Poe a Wilde il ritratto ha consegnato la memoria di sé al tempo lineare cinematografico laddove lo schermo ha spesso giocato sull'animazione della figura bloccata una volta per tutte sulla tela ricavandone storie, assai spesso - e non avrebbe potuto essere diversamente - storie del desiderio. O se volete desiderio di storia, di racconto, che è anche desiderio di una identità individuale e collettiva.

            Tutto il cinema classico - anche quando non vi appaiono, come di sovente nel genere "nero", quadri di cui svelare il segreto e a cui dunque ridare la vita - è un cinema che lavora sul personaggio-attore: se questi è un divo, la sua immagine è legata alle fotografie che dissemina sui media; se è un caratterista, la sua immagine è di fatto una fotografia vivente, non ha a che vedere con l'aura del mito ma con il realismo della cronaca.

            Il giovane Peppino Impastato che, affascinato da un ritratto di Majakovskij, chiede a chi lo ha dipinto di "raccontarne la storia" si inserisce perfettamente in quella tradizione classica e per più aspetti perduta o assente nel cinema italiano. Anzi ne è una possibile didascalia: l'arte del ritratto è la concentrazione in un volto della ricchezza narrativa di un paesaggio. E questa specifica teoria del ritratto calza perfettamente con lo stile di Ducrot, cioè con il pittore "vero" dei quadri ripresi sul set. Pezzi di verità come i frequenti brandelli di telegiornale che fanno da sfondo al tempo narrato del film. "Vero" come del resto vera è la storia a cui è stato chiamato a collaborare. Un Ducrot perfettamente scelto in quanto interprete ideale di un artista che sa suggestionare l'attesa dello sguardo con i primi piani di volti tanto intensi, tanto emotivamente carichi di espressione umana da turbare i sensi (ciò di cui l'infanzia più dispone).

            è la scena con cui viene descritta l'iniziazione al comunismo del protagonista di un film-documento (come per il ritratto si tratta di una fiction che lavora su un modello reale). La scena verrà rimessa in campo drammaturgicamente - la componente drammaturgica è quella più sentita e esibita in questo film di Giordana - alla fine del racconto-verità, quando Peppino sta per essere ucciso dalla mafia. Il ritratto di un bambino che ancora non conosce la sua storia e dunque è congelato nella propria inconsapevolezza si mostra ora a un giovane che ne ha vissuto il futuro ma che sta per tornare nella fissità della morte, nell'"icona" da cui oggi è stato ricavato il film. Un modo per "raccontare la storia" di uno dei ritratti della lunga e tragica galleria di vittime della mafia.

            Dunque Giordana è insieme il pittore-militante del racconto e il Ducrot che con i suoi ritratti gli ha fornito la credibilità necessaria per essere vero: Ha concentrato in queste due brevi sequenze la poetica del film: il mandato artistico ma anche sociale di un regista che usa il cinema per descrivere un nome, per nominare una identità.

            Anche l'idea di definire il ritratto come un paesaggio trova un'ulteriore spiegazione nella sequeanza in cui Peppino, proprio mentre osserva l'amico che sta fotografando il paesaggio deturpato dalla speculazione dei mafiosi, mostra di sentire quanto ogni delitto sociale finisca per diventare natura, normalità persino affettività (famiglia: padre e madre). Il lavoro di regia in questo caso per Giordana è stato anche quello di scoprire ciò che il paesaggio nasconde, l'amoralità di ciò che ce lo rende familiare.

            ALBERTO ABRUZZESE, presentazione della mostra "ritratti per I Cento Passi". Roma, novembre 2000
        • Augusto Pieroni
          • "LA FAGLIA DI VALLE GIULIA: UN PROBLEMA DI ERE GEOLOGICHE"
            Due mostre - vicine e lontanissime - di artisti giovani per due istituzioni delle quali una gioca in casa e l'altra vince.

            La Valle Giulia è più profonda di quanto si creda. Cinquanta metri bastano per creare un dislivello epocale. La distanza è quella che intercorre fra l'Accademia Britannica in Roma e la Galleria Nazionale d'Arte Moderna, entrambe - tra altri compiti istituzionali - alle prese con la difficile promozione dell'arte giovane dei due rispettivi paesi. Ma - di là da questioni di budget - la mostra di Mona Hatoum alla British School è l'occasione per avvicinare, attraverso un'opera inedita, un'artista internazionale ospitata alla Biennale di Venezia di quest'anno; un personaggio complesso, per la quale estetica e coscienza etnico - politica sono gli estremi di un discorso sull'ambiguità. La mostra di Giuseppe Ducrot in corso alla G.N.A.M. è, invece, l'esibizione di un lavoro non inedito per lo stesso pubblico romano (or è mezz'anno dalla mostra alla Galleria Carlo Virgilio), né sostenute da una problematicità di alcun interesse per il dibattito artistico che dovrebbe essere insieme fatto estetico e sociale: formale, cioè, e umano.

            L'opera della Hatoum - un finto tappeto costituito di biglie di vetro trasparente - vive di un'attrattiva messa in scacco dall'ambiguo utilizzo dell'oggetto che invade quasi per intero l'ambiente in cui è ospitato. Il lavoro può essere letto come fortemente influenzato dalla provenienza orientale dell'artista, palestinese naturalizzata inglese, che essendo di religione greco ortodossa ha alle spalle un retroterra fatto di impassibili durezze espressive e di "luminose" bellezze intellettuali: le icone. L'antica bellezza radiante ed il pensiero in questo caso tutt'altro che trascendente, ma fisico e comportamentale, sono vivi ancora e nuovissimi nel lavoro creato per l'Accademia Britannica il quale risente pure di un'altissima tradizione formale e di "engagement" quale quella dell'arte inglese del secondo dopoguerra.

            Nella Galleria Nazionale i busti di Ducrot son nati vecchi e simulano posture e soggettari classici, volutamente ripescando a casaccio fattezze e materiali dalla Roma imperiale o barocca. Genie di imperatori affetti da ipertiroidismo devozionale post-tridentino e le cui mani paiono pensate da El Greco e realizzate da Leoncillo. Ma tutto fuori tempo massimo. E perché, poi? Il ripescaggio tecnico e iconico dell'antico non era già in un certo De Chirico? o non lo hanno poi riproposto gli anni '80 con Mariani, che, però, ragionava tanto di più? O con Ontani che- vivaddìo - giocava tanto più squisitamente?

            Il lavoro della British School, secondo la felice tradizione di aggiornamento e propulsione che la caratterizza, è una finestra su un mondo vivo e in divenire; l'operazione della G.N.A.M. rischia invece di essere un inutile giocarello: una palla di vetro - di quelle che, girandole, cade la neve - dall'involontario Kitsch, nella quale però si legge un gravissimo declino di autorevolezza sull'arte visiva.

            Augusto Pieroni, in "Bollettino Telematico dell'Arte", 11 luglio 2000
        • Giovanna Bonasegale
          • Orvieto.

            È una figura a mezzo busto quella del San Matteo, che ci propone Giuseppe Ducrot. La testa girata verso destra, leggermente rivolta in alto, lascia scoperta una parte del collo; i riccioli della barba e dei capelli incorniciano un volto dai lineamenti segnati, scavati i contorni degli occhi e le guance; appena trattenuto dalla mano sinistra il libro sembra appoggiato sul grembo e la mano destra è alzata con la stessa levità di una battuta di solfeggio; la veste, drappeggiata sul corpo, si scosta intorno all'incavo del collo e all'avambraccio. Il drappo pesante ed erto, come di una lana grezza, grossolana, opaca, contrasta con l'incarnato del corpo del santo levigato, liscio, splendente di luce. Non ha età la figura del santo, o almeno non ne porta i segni. Sta, in un tempo sospeso che non conosce imperfezioni. Progettata per una visione frontale, come in un apparato scenico, teatrale la figura, in marmo di Carrara, si staglia da una base scolpita nello stesso blocco di marmo. Dorata a foglia, la base simula il legno, ma anche un elemento architettonico portante, di sostegno, il baldacchino di un reliquiario o di un oggetto votivo, da processione.

            La prima mostra personale di Giuseppe Ducrot è nel 1984, presso la Galleria Carlo Virgilio presentato in catalogo da uno scritto di Bruno Mantura. Scopriva subito un vero talento per il disegno che, insieme con la pittura, ha continuato a praticare negli anni successivi fino a dedicarsi pressoché completamente alla scultura. Anni di apprendistato solitario per impadronirsi delle tecniche del marmo, del bronzo, della terracotta, della ceramica invetriata, nelle cave, nelle fonderie, nel forno di casa. Prima di essere scultore è stato un amante della scultura, uno che ha guardato, che ha riflettuto, che si è innamorato della scultura classica, come di quella rinascimentale e barocca. E ha inteso di rivisitarla, adoperando mezzi e procedimenti analoghi a quelli dei più antichi maestri.

            Soffermarsi sulla sua perizia tecnica, sulle capacità formali e stilistiche, sulla sapienza con cui tratta tutti i materiali che sceglie credo che non sia superfluo, perché sono queste qualità unite ad una naturale inclinazione, che lo fanno emergere nella pratica della scultura.

            I soggetti che sceglie e il modo di rappresentarli sono tanto lontani dall'iconografia contemporanea quanto contigui a una contemporanea problematicità, laddove il problema non è che cosa raffigura, ma come e perché. Giuseppe Ducrot recupera con tutta la contemporaneità dei suoi mezzi espressivi una continuità di tradizione interrotta, dunque non si può inserire in un contesto già codificato, semmai si volge verso quel gusto antiquario, che fa parte della storia della cultura europea e quindi anche del nostro presente. Le sculture di Giuseppe Ducrot non sono d'apres, sono invenzioni: quello che va trovando, cavandolo da una materia difficile da prevaricare, e oggi più che mai ha un sapore di sfida lavorare il marmo per farne figure. Queste sue forme così riconoscibili si inseriscono - per uno di quei paradossi che sanno abitare le arti visive - in un irrequieto registro di astrazione dove ciò che interessa sono i rapporti di pieno e di vuoto, le gerarchie dei volumi, le proporzioni e i raccordi formali tra massa e superficie.

            La sua non è una adesione acritica a un passato remoto, ma una riproposizione mimetica, nel senso ovviamente della sopravvivenza dello stile, l'investigare di uno sguardo e di una mano liberi, che proprio dalla distanza temporale traggono le novità dell'interpretazione. Come il suo San Matteo, Giuseppe Ducrot sta in un tempo sospeso, drammaticamente perfetto, per questo, credo, le sue opere appaiono maestose e inquietanti.

            GIOVANNA BONASEGALE
        • Achille Bonito Oliva
          • SCULTURA IMPERATORE

            Da Medardo Rosso comincia la dissoluzione della scultura come genere alto, passando per Boccioni e Arturo Martini, il continuum spazio-temporale di Fontana fino alle strutture di Lo Savio e le "simulazioni" di Pascali. Negli anni '70 la scultura si è installata come cosa tridimensionale in espansione nello spazio, dimettendo l'uso dei materiali tradizionali, assumendone altri più quotidiani.

            Alla dissoluzione della scultura Giuseppe Ducrot contrappone la ripresa della sua tensione aulica, esaltandola attraverso un processo elaborativo, in cui è compresa la sua tenace manualità.

            Ha trovato nell'iconografia dell'Impero Romano il deposito aureo, fonte continuamente attivante. Il giovane artista infatti si muove e vive la Città Eterna, ora stretta in una informe postmodernità di sé stessa, museo di ruderi all'aperto e mutile statue al chiuso. Fendendo l'ambigua caoticità del presente, in cui sopravvive la città, Ducrot agisce nel perimetro di una sua singolare temporalità, puntando alla grandezza virile della statuaria classica. Il suo è un continuo deambulare per i musei, chiese, monumenti, un continuo avvicinamento e allontanamento, calamitato dalla forte autorità dei ritratti statuari degli imperatori romani, la cui presenza è saldata nella marmorea definizione formale. Il suo non è certo un tentativo di predazione emulativa, le sue soste riflessive gli suggeriscono la sua ars combinatoria: montaggio e smontaggio, come potrebbero essere suggeriti dalla lettura de "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta".

            E' possibile vederlo irrompere nei musei armato di quella stessa tecnica dell'assemblaggio, visione dell'insieme e conoscenza del dettaglio. Ducrot pilota. Il suo occhio punta sulla singola persona , ritratto marmoreo dell'imperatore, per poi dilatarsi sull'intera famiglia di ascendenza e discendenza a cui costui appartiene. E nell'insieme delle sue opere è possibile enucleare inedite famiglie. Quando scolpisce l'effigie di Domiziano, per esempio, assume nel presente elaborato dalla forma il preesistente, la famiglia caratteriale che unisce l'intera dinastia dei Flavi. Concretezza della forma e peso della materia celebrano il maschile, non vi è traccia in questo gruppo di opere del femminile come convenzione di ideale di bellezza, illusoria fuga dal tempo.

            Marco Aurelio, Commodo e Domiziano rappresentano il trionfo della durata, esaltazione di un tempo non quotidiano espresso proprio grazie all'esaltata temporalità che la loro esecuzione richiede.

            Alla smaterializzazione dell'arte attuale, alla svaporizzazione del processo crativo, Ducrot risponde ristabilendo la centralità di un tempo etico.

            Sicuramente Ducrot attraversa il Cinquecento, epoca che si manifesta proprio nella ripresa del modello classico, là dove vale l'imperativo neoplatonico della materia a togliere, ma per stabilire la sua preferenza verso il Settecento, in un luogo di passaggio dal "furor" creativo all'industriosità. E' così che nella materia stessa della sua opera, che sia marmo o oro, terracotta o bronzo risuona l'interrogante elaborarsi della forma. Un corpo a corpo sensibile, ma non emotivo, perché ordito da un vigile sistema combinatorio, virtù del compimento e passione del dettaglio.

            Combinazione e contaminazione risultano da una necessaria riflessione concettuale sulla scultura della materia, scelta prediletta che nel suo grave peso storico consente la soluzione armonica: spostare con leggerezza il suo ingombro nel presente. E la durata concretamente temporale necessaria al suo processo, lunga ed accanita, legittima tale leggerezza. Ma l'ordine formale raggiunto non è preesistente, non vi sono più canoni resistenti ( oltre quelli che la materia impone ) e tuttavia lì s'incide un carattere dalla lampante riconoscibilità. Ma la caratterizzazione di queste opere ( di un giovane scultore certamente magnetizzato dalle opere della romanità e per niente da quelle della grecità ) non è di tipo psicologico, ma è pura declinazione nella lingua severa del bianco e del nero, esposizione di innumerevoli ombre.

            Così Ducrot è proteso verso una riconoscibilità essenziale, un'"identità singolare". E festina lente, affrettati lentamente, potrebbe essere il suo tempo, poiché si misura con il pathos del tempo in fuga ma, quasi mimeticamente, ne rispetta la gravità con la durezza del suo stesso lavoro e la pesantezza della materia, imbrigliando la propria vitalità, il ritmo urgente della sua giovane età nella disciplina che la sua opera esige. Così questo tempo lavoro è totalmente imploso nell'opera compiuta, assorbito ( e assorto ) nella sua plasticità.

            Scultura imperatore è questa di Giuseppe Ducrot: genere al quale restituisce un'inedita regalità, che lampeggia in queste presenze dalla singolare forza, che non esprimono, non rappresentano ma sigillano il proprio esserci, essere in quel tempo battuto da quella forma.

            Per tutto questo l'incontro con Giuseppe Ducrot provoca un felice inciampo alle mie peripezie di critico, alla mia pratica, alle mie svelte attitudini teoriche sulle sperimentazioni dell'arte. Come di fronte al convitato di pietra, ho dovuto sostare alla particolarità dell'incontro - tra un Don Giovanni della conoscenza e un imperatore dell'Io: il critico messo a nudo dalla "sprezzatura" di un'opera che risolve in forma il carico di un tempo storico, perché possa vibrare un possibile presente.

            ACHILLE BONITO OLIVA, Scultura imperatore, in Sculture 1992 - 1994, catalogo della mostra (Galleria Carlo Virgilio - Roma marzo 1995)
        • Bruno Mantura
          • Giuseppe Ducrot dalla pittura è passato alla scultura. Secondo quanto ci fa sapere lui stesso il passaggio è stato lungo, anni di sperimentazione, prima di approdare alla scultura con la S maiuscola, realizzata in nobili materie, il marmo ed il bronzo.

            Ducrot ci fornisce altri spunti di riflessione. Egli ritiene che l'abbandono della pittura e del disegno sia dovuto alla sua caduta di interesse per l'ambientazione spaziale, diremmo noi, dell'immagine, che egli ora vede svincolata dal suo sfondo.

            L'attività del giovane artista era stata, infatti, divisa tra il disegno in bianco e nero e la produzione di un gruppo di ritratti dal vero, in pastello, dei suoi commilitoni, al tempo del suo servizio militare. I ritratti campeggiavano sul vuoto del foglio ed emergevano da esso per via dell'uso di colori assai delicati. Volti di giovani in cui Ducrot felicemente segnava le caratterizzazioni psicologiche individuali con una attenzione francamente realista.

            Nulla ci sarebbe di sorprendente nel passare dalla pittura alla scultura, se Giuseppe Ducrot non ritenesse necessario calare la sua scultura in una serie di manufatti, che mimano esempi di età remote, come quella romana imperiale o quella ellenistica. Per intenderci, Ducrot scolpisce teste che, al primo colpo d'occhio, sembrano frutto del lavoro di un copista: Marco Aurelio, Galba, Nerone, ma anche Nettuno, un Sileno, ed oggi una grande testa del Salvatore in argento. Così Ducrot opera, dunque, negli stretti confini di chi lavora su un testo precisamente definito, di chi preferisce attingere al circoscritto campo di un'opera d'arte piuttosto che a quello vasto della natura.

            Ducrot è animato da una impellente curiosità e nutre uno straordinario entusiasmo per i problemi tecnici connessi con la realizzazione di un manufatto artistico. Ci comunica infatti che questa sua impresa di scultore consiste soprattutto nel piacere di riscolpire immagini ipercollaudate - sono parole sue - come appunto quelle dell'iconografia imperiale, calarsi all'interno di esse e provarsi a rifare un immagine in bronzo od in marmo con le proprie mani.

            Credo che colui che si sofferma di fronte ai suoi dei o eroi non sia certo di trovarsi di fronte all'inerte e meticoloso lavoro di chi vuole, fin nei minimi particolari, bissare una certa immagine: basta qui un leggero aggrottare delle sopracciglia, lì uno storcere della bocca per convincerci che non si tratta di una mera riproduzione dei prototipi. Qualche lieve diversità, un leggero scarto rispetto al modello lo avvertono di trovarsi di fronte ad una operazione più sottile.

            E' mia ferma convinzione che la poetica di Ducrot vada individuata nella ricerca di una sorta di dissomiglianza dal modello. E' come se il giovane scultore togliesse elementi connotativi al suo Nettuno o al suo Galba, ora facendo slittare alcune caratteristiche iconografiche e fisiognomiche divine verso una accentuazione forse anche grottesca, ora sottraendo a quello imperiale, banalizzandolo, l'augusta dignità della sua facies. Operazione concettuale, dunque, riduttiva e provocatoria anche, soprattutto formalmente, che Ducrot conduce appunto sul corpo dell'arte più aulica e più monumentale, la scultura. E sulle immagini più collaudate di essa, segnatamente quelle antiche.

            Accanto alle teste di marmo e di bronzo, Ducrot esibisce delle prove in terracotta, alcune come modelli di una redazione definitiva in materia appunto più nobile, altre studii fine a se stessi, oppure tradotti in ceramica invetriata. In questi esemplari Ducrot, che sembra non darsi pace in quanto a ricerca e quindi ad indagini sugli stili, risolve l'immagine in senso barocco o barocchetto, con risultati cioè di una plastica assai più mossa.

            Che l'operazione di Ducrot, insisto, indipendentemente da considerazioni formali o di realizzazioni artigianali, possa inscriversi in un più vasto progetto concettuale, mi sembra evidente.

            D'altra parte però l'ondeggiante alternarsi di tentativi di inserimento dell'operazione scultorea nella pelle di momenti stilistici opposti e storicamente distanti come quello ellenistico-romano da un lato, e rococò dall'altro, ci induce ad una ulteriore considerazione.

            L'attività di Ducrot si inscrive in una tendenza quasi generalizzata dei nostri giorni, quella che vede la ricerca artistica liberamente e spregiudicatamente inoltrarsi nei territori del cosiddetto eclettismo, ancora ieri largamente avversato sia dalla critica che dal pubblico accorto. Un passo avanti nelle sue sculture il nostro giovane artista sembra però compierlo: quando Ducrot sceglie le forme ellenistico-romane o quelle di un nobile Cristo in vesti antiche, e le privilegia, egli compie un passo decisivo, come di congelamento dei moti eclettici, vigorosamente imbrigliati e ricondotti a forme classiche già, e per secoli, esemplari. E ciò facendo, egli sembra, infine, esprimere un giudizio alto e ben chiaro.

            BRUNO MANTURA, Sul lavoro di Giuseppe Ducrot, presentazione della mostra "Partito preso", Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, dicembre 1995.
        • Bruno Mantura intervista Giuseppe Ducrot
          • INTERVISTA A GIUSEPPE DUCROT

            Mantura
            Caro Ducrot benché tu sia giovanissimo, hai già un passato di disegnatore e di pittore. Nel corso di circa cinque anni, lentamente e progressivamente, ti sei dedicato alla scultura. Cosa hai da dirmi a questo proposito?


            Ducrot
            Mi sembra di "isolare" meglio il soggetto scolpendo, lo estraggo da un contesto cioè da quello che è lo sfondo del dipinto.
            Per il cosiddetto soggetto non intendo solo la figura, ma anche una qualsiasi forma plastica. Mi sembra che il dipinto mi obblighi ad una narrazione ciò che è facile scongiurare nella scultura a tutto tondo.
            E inoltre l'operazione tecnica dello scolpire mi attrae e mi diverte molto di più che lavorare su una superficie bidimensionale.

            Mantura
            Capisco: già i tuoi ritratti di soldati presentavano i raffigurati sul foglio di carta in maniera assoluta, senza ambientazione. Ora sono assai incuriosito dalla scelta che tu compi, molto simile a quella del copista, scolpendo immagini già scolpite, già "edite" per così dire. Sui tuoi personaggi romani imperiali o mitici ed ora, per esempio, la figura del Salvatore gravano grosse caparre iconografiche.


            Ducrot
            Prendere una forma già scolpita, ipercollaudata come quella di un imperatore o un Cristo, riscolpirla con le proprie mani e con la propria testa, basta a sconvolgerla, a rovesciarne il significato iconografico e, liberamente, non curandomi dei procedimenti scultorei tradizionali, provare il mio.

            Mantura
            Mi sembra che la tua curiosità si concentri molto sul mestiere, sul come fare una scultura, operazione che tu vivi anche in senso sportivo e manuale, e ti porti meno ad interessarti all'iconografia antica, che pure adotti. Che significato allora assume per te la tecnica, che se non vado errato, gode del tuo maggiore interesse? Perché teste in terracotta, o in marmo o in argento?


            Ducrot
            Non preferisco una materia all'altra. L'importante è che la statua stia su bene da sola. Mi sembra che il marmo e il bronzo siano come il "fine naturale" dell'operazione scultorea; comunque la terracotta pur essendo un medium simile all'appunto nella scrittura non la uso solo per fare dei modelli di preparazione ma anche per presentarla come opera in sé finita.
        • Bruno Zanardi (Il Sole 24 Ore)
          • E' di pochi giorni fa l'inaugurazione, a Roma, di un oggetto di "arredo urbano" del tutto inconsueto per i nostri tempi. Si tratta di una Erma femminile che decora la fontana antico-romana posta davanti al seicentesco Palazzo Ossoli. Dove la sua singolarità è di essere una scultura del tutto figurativa, eseguita in marmo statuario di Carrara da Giuseppe Ducrot. Quest'ultimo, un artista così singolarmente dotato da far prevedere, vista la sua giovinezza, che s'appresti a divenire uno dei grandi scultori italiani tra questa fine di secolo e il nuovo. Dell'Erma non c'è molto da dire, se non che è bellissima, con quella sua singolare aderenza al reale, fatta di eccessi di forme che trepidano di passione e di forza, tipici dell'intera opera di Ducrot. A questo si può però aggiungere che l'Erma mostra finezze esecutive con ogni probabilità imparate da quella scultura barocca romana sulla quale Ducrot da anni si consuma gli occhi. E si può anche dire che la messa in opera di questa scultura conclude definitivamente il restauro del 1993 della facciata di Palazzo Ossoli, evidenziando per altro ancor di più l'errore, allora fatto, d'aver scambiato il mestiere del restauratore di dipinti con quello del decoratore: col risultato che quella facciata non è una decorazione e nemmeno un restauro.

            Tutto ciò appare però solo un piccolo neo di fronte all'intervento sul resto del Palazzo, che è perfetto. Ma soprattutto nulla rappresenta di fronte al coraggio mostrato nell'aver ornato la fontana di Palazzo Ossoli non all'antica, ma con un oggetto di forma compatibile con la città storica.

            Un coraggio ancor più meritevole visto che ad averlo avuto è stato chi i lavori di restauro ha diretto, l'architetto Mario Lolli Ghetti, il quale, così facendo, ha implicitamente riconosciuto l'ampio fallimento, peraltro sotto gli occhi di tutti, del rapporto tra architettura moderna e città storica, ossia la labilità del problema della "autenticità", sul quale da anni ormai si scannano architetti e storici.

            Sul primo argomento, a dar ragione a Lolli Ghetti basta e avanza il disastro delle periferie italiane, piuttosto che la devastazione delle coste: un disastro ormai irrimediabile e talmente immane da essere più ancora che urbanistico, ambientale. Ma restando alla fattispecie dell'ornamento della fontana di Palazzo Ossoli - perché questo è prima di tutto la Erma di Ducrot: un ornamento cittadino -, a dar di nuovo ragione a Lolli Ghetti è l'ostinata perversità con la quale le Amministrazioni comunali italiane hanno riempito centri storici e periferie d'oggetti di "arredo urbano"mostruosi e con funzioni, non ben definite, quali lastre orizzontali in legno e ardesia (panchine?), pali in ferro con annesse padelle (lampade?), parallelepipedi in cemento e rame (fioriere?) e così via. Insomma una serie d'oggetti di costante bruttezza, inutilità e irrazionalità, che ci rende certi come simili misfatti sarebbero stati certamente evitati se, al posto di chiamare architetti o designer, si fosse affidato il compito di decidere dell'"arredo urbano" semplicemente a una qualunque persona il cui gusto si sia formato col vivere in case tradizionalmente bene arredate da secoli.

            Diverso, ma poi non molto, è il discorso sull'autenticità. Assurdo appare infatti parlare d'un falso, in termini filologici, per la Erma di Ducrot. E' vero che questa scultura ne rimpiazza un'altra molto simile, documentata in una stampa seicentesca del Falda; ma è anche vero che di questo nuovo intervento è stata data notizia dai giornali e televisioni di tutt'Italia, quindi non occorrerà andare troppo in archivio a trovarne, tra cent'anni, traccia; così come è vero che Giuseppe Ducrot è un artista contemporaneo che realizza, scolpisce in maniera tradizionale con materiali e tecniche altrettanto tradizionali, perché così è la sua arte e non perché deve intervenire sulla facciata d'un palazzo storico. Se poi il problema è di distinguere ideologicamente il nuovo dall'antico, si potrebbe proporre a Ducrot di mettersi anche lui a fare fusi d'acciaio alti sei metri, mozzarelle di rame di un paio di tonnellate; chiocciole di pietra grandi come un uomo e altri simili oggetti di pura decorazione, che chiunque è in grado d'immaginare ed eseguire. Quelli che hanno infestato quei luoghi di perfetta armonia formale e spaziale tra emergenze monumentali ed edilizia corrente come sono, anzi erano i nostri centri storici: da ultimo, a Roma, i quattro gelati tutta panna dell'incredibile, imbarazzante e assolutamente superfluo monumento messo in opera a Largo Santa Susanna. Magari chiedendo anche un parere in proposito al mio amico Raffaele La Capria, il quale, in suo curioso "elogio del buon senso", edito tempo fa da Rizzoli, ha avuto, credo, per primo il coraggio di chiedersi ( e chiederci ) se davvero, senza un forte sforzo di autoconvincimento e senza la spinta del mercato, la gran parte dell'arte contemporanea ci piacerebbe.

            BRUNO ZANARDI, Qualcuno ha osato "ornare", Il Sole 24 Ore, 9 novembre 1997, pag. 35
        • Bruno Zanardi (Il Giornale dell'Arte)
          • ARIDATECI BERNINI

            Invito all'insurrezione violenta per i cittadini di Cascia, Senigallia e Roma. L'incitazione viene dall'inaugurazione di una statua monumentale di San Benedetto, il santo prediletto dal nuovo Papa, appena inaugurata a Cassino.

            Nei giorni scorsi è stato celebrato a Cassino uno degli avvenimenti artistici più insoliti e interessanti degli ultimi anni in Italia. L'inaugurazione di una monumentale statua in bronzo che raffigura San Benedetto, realizzata da uno dei grandi scultori italiani d'oggi, Giuseppe Ducrot, e posta all'ingresso nord della città ad accogliere idealmente chi vi arriva.

            Un interesse, quello di questa vicenda, che nasce dall'aver realizzato Ducrot una scultura alta più di tre metri in tutto e per tutto degna di una statua di Algardi o di Bernini. Un San Benedetto reso nella sua ultrasecolare iconografia di monaco calvo e barbuto, e con temporaneamente di abate avvolto in un trepido e forte vortice di panni barocchi, che affettuosamente benedice chi entra a Cassino. Quindi un'opera, questa di Ducrot, che si pone agli antipodi dei tutti che avrebbero fatto di Benedetto una spirale di marmo sormontata da un cono, o il tronco consunto di un vecchio albero con applicate delle foglie d'oro, oppure una gigantesca mezzaluna di ferro arrugginito; cioé i tutti che avrebbero risolto il tema seguendo l'ultima delle sempre più afasiche e irritanti e ideologiche mode dell'arte contemporanea. Quelle secondo le quali l'arte non è l'opera, ma , appunto, la sua idea.

            Non è però solo il dato tecnico - esecutivo a rendere questa operazione così, torno a dire, insolita e interessante. Il San Benedetto è solo una delle sculture di straordinaria energia creativa, quindi in tutto moderne, che con grande coraggio Giuseppe Ducrot da anni esegue, isolatissimo, senza mai abbandonare il senso della tradizione storica dell'arte italiana. Quella a cui si è invece andati sempre più allegramente rinunciando, sostituendola con una produzione di manufatti di gusto, per così dire, "internazionale", i quali pochissimo, se non nulla, hanno a che vedere con l'arte e moltissimo invece con l'arredamento: piccolo, medio, alto borghese, secondo costo, ingombro e moda del momento.

            Ma è sull'architettura che la spensierata rinuncia alle forme e ai materiali del passato ha più infierito. Si pensi alla devastazione del paesaggio italiano condotta nel nome, da una parte, di una scienza urbanistica tuttavia revocata in dubbio a ogni nuovo piano regolatore, dall'altra, di una "creatività architettonica" i cui sgrammaticati e ideologici effetti chiunque può valutare attraverso la periferia di una qualsiasi delle nostre città. Tutto ciò senza aver capito, architetti e committenti, come la qualità più entusiasmante e davvero unica al mondo del nostro patrimonio edilizio maggiore e minore fosse la sua assoluta libertà nella continuità di proporzioni, materiali e colore con il contesto urbano; quella il cui inascoltato monito ancora aleggia nei centri storici delle nostre città. Né si creda che non possano perciò esistere grandi artisti dei nostri tempi. Solo che c'è un'immensa differenza, per fare due soli esempi, tra l'energia creativa che rende, al solito, moderno un dipinto di Picasso e i quatrro fregacci stesi a caso su una tela dell'epifenomeno di turno; o tra un'architettura di Renzo Piano, e quella di uno degli oltre centomila (sic) laureati in architettura italiani che ne divulga il verbo in una delle tante via Bainsizza piuttosto che XXV Aprile delle periferie italiane. Insomma: riuscirà la lezione di storia e di civiltà artistica che esce dal san Bendetto di Ducrot a far sì che un signore il quale si tiene in casa un cadavere congelato, una tela perfettamente bianca, dei bambolotti di plastica senza la testa, il tutto comprato per qualche milione di euro perché un qualche noto critico ha scritto che sono importanti opere d'arte, che quel signore vada a rileggersi le avventure di Calandrino di Boccaccia (Decamerone) o quelle del Conte Anselmo di Carlo Goldoni (La famiglia dell'antiquario)? E servirà il piccolo esempio di Cassino a convincere chi vive in un condominio architettese della Padania in ferro-cemento con finestre circolari a oblò marino, che una simile soluzione del tutto decontestualizzata e antifunzionale si pone come un insulto all'occhio e alla ragione? In altre parole: si arriverà mai a far sì che gli abitanti di Cascia demoliscano con il piccone le imbarazzanti stilizzazioni borrominiane in forma di sculture post-modern in travertino che ne costituiscono il nuovissimo "arredo urbano"? E che gli abitanti di Senigallia insorgano contro chi a reso con un restauro la cinquecentesca forma di Palazzo della Rovere in un condominio popolare che domina una piazza divenuta un luna park con annessi lampioni a fungo? E che gli abitanti di Roma innalzino striscioni con scritto "Basta con i torroni di pietra e i tralicci d'acciaio imbullonato nelle nostre piazze storiche. Aridatece Bernini"?

            Bruno Zanardi in "Il Giornale dell'Arte", N° 244, pag. 46
        • Don Pietro Vittorelli
          • Proprio ai piedi dell'abbazia di Montecassino, all'ingresso della città di Cassino, in quella che la storia ci consegna come la Terra Sancti Benedicti, il 26 febbraio è stata inaugurata una statua bronzea di San Benedetto Abate, Fondatore di Monteccasino e Patriarca del Monachesimo d'Occidente. L'occasione è offerta dalla duplice ricorrenza del LX anniversario della distruzione-ricostruzione di Montecassino e Cassino e del LX anniversario della solenne proclamazione di S. Benedetto Patrono d'Europa.
            La statua ha avuto una lunga gestazione accompagnata da una commissione presieduta dall'Abate Vescovo di Montecassino Bernardo D'Onorio e dal Sindaco di Cassino Bruno Vincenzo Scittarelli. Due anni fa furono invitati una decina di artisti italiani a presentare dei bozzetti e dopo numerose discussioni all'interno della commissione si è arrivati alla designazione del giovane scultore romano Giuseppe Ducrot al quale la committenza ha affidato l'incarico di una realizzazione così importante. Sono stati eseguiti ben dieci bozzetti prima di arrivare ad una definizione del soggetto sacro che esprimesse in pienezza la sensibilità mistica dell'autore e le esigenze della committenza.

            Giuseppe Ducrot è nato a Roma il 4 settembre 1966 dove vive e lavora. Dopo gli studi classici e una breve parentesi come pittore, si è interessato quasi esclusivamente di scultura, utilizzando materiali diversi quali bronzo, marmo, terracotta e vetroresina. Ha partecipato a numerose mostre personali e collettive. La sua ricerca artistica ha conosciuto diverse fasi prima di approdare definitivamente alla sua scelta di rifarsi a stilemi scultorei classici. Tra questi, il barocco romano è la spiaggia preferita dove l'artista ama indugiare alla luce dei grandi, e tra essi, certamente, il Bernini ne è l'astro. È da Bernini infatti che la scultura venne condotta a traguardi fino ad allora neppure pensabili, e tra le sue mani prese vita un linguaggio figurativo – il Barocco appunto – capace di dominare l'intera Europa per quasi due secoli e di imporsi poi all'immaginario collettivo come una categoria dello spirito. Ducrot non poteva quindi ispirarsi a stile migliore per celebrare il Patrono d'Europa. Di fronte alle opere del Ducrot infatti scompare quel minimalismo di forma e, talvolta, di pensiero che caratterizza la ricerca artistica contemporanea, o meglio, è lo spettatore che vive il suo personale minimalismo in contemplazione di ciò che è pienezza di forma e di spazio in uno studio appassionato della materia. Ogni piega delle corpose opere di Ducrot rimanda ad una percezione piena della realtà con una gravità che pone un punto fermo sulla nostra esistenza corporea e che pure riesce a far percepire la levità dello spirito che le anima.

            Tra i molti fili d'Arianna che possono aiutare a non smarrirsi nel labirinto di forme e di valori del Ducrot, quello dell'illusione è uno dei più sicuri e insieme, dei più avvincenti. Come un illusionista, Ducrot prende per mano il bambino che è in ciascuno di noi e, dopo averne conquistata la fiducia, ne stimola l'intelligenza e la memoria per suscitare in lui dapprima curiosità, quindi stupore e meraviglia. Il destinatario è sempre più spesso chiamato a completare con le proprie cognizioni o con le proprie emozioni la scultura che osserva.
            Ducrot appartiene a questa tradizione antica, e anzi la rifonda, spingendone, in un'epoca come la nostra, le possibilità al limite estremo: mai come di fronte alle sue opere lo spettatore si sente importante, essenziale, per dare loro senso e vita ma, allo stesso tempo, mai come ora egli viene costretto in una posizione fisica e psicologica determinata, e quasi violentato dall'artista, il quale fissa per i contemporanei e per i posteri le condizioni ineludibili per accedere alla straordinaria ricchezza formale e morale dei suoi capolavori.

            Tra i molti fili d'Arianna che possono aiutare a non smarrirsi nel labirinto di forme e di valori del Ducrot, quello dell'illusione è uno dei più sicuri e insieme, dei più avvincenti. Come un illusionista, Ducrot prende per mano il bambino che è in ciascuno di noi e, dopo averne conquistata la fiducia, ne stimola l'intelligenza e la memoria per suscitare in lui dapprima curiosità, quindi stupore e meraviglia. Il destinatario è sempre più spesso chiamato a completare con le proprie cognizioni o con le proprie emozioni la scultura che osserva.
            Ducrot appartiene a questa tradizione antica, e anzi la rifonda, spingendone, in un'epoca come la nostra, le possibilità al limite estremo: mai come di fronte alle sue opere lo spettatore si sente importante, essenziale, per dare loro senso e vita ma, allo stesso tempo, mai come ora egli viene costretto in una posizione fisica e psicologica determinata, e quasi violentato dall'artista, il quale fissa per i contemporanei e per i posteri le condizioni ineludibili per accedere alla straordinaria ricchezza formale e morale dei suoi capolavori.

            Il San Benedetto è la prima opera veramente monumentale di Ducrot con i suoi 3,50 metri di altezza: una scommessa con sé stesso e con lo spazio vista la collocazione della statua e la necessità di realizzare un colosso con tante sporgenze. Egli ha dovuto tener conto della necessità di renderlo percepibile nell'enorme spazio aperto sulla valle del Liri, all'ingresso della città di Cassino, quasi a dichiarare subito le generalità spirituali e culturali di quelle popolazioni.
            La silouette a croce di San Benedetto ha senz'altro un significato simbolico ma serve soprattutto a renderlo leggibile anche a grande distanza. Tutta la superficie dell'opera è percorsa da profondi solchi, concepiti per catturare la luce e trasmettere a chi lo vede da lontano un penetrante senso di vibrazione luminosa che unitamente ad una estrema finitezza ne fanno oltre che una statua "bella" una scultura di grande godibilità. L'inserimento in uno spazio aperto e l'avere come sfondo quel monte a cui Casino è nella costa (Dante, Divina Commedia)fa della scultura un punto focale di riferimento ineludibile verso il quale linee prospettiche a largo raggio delineano una vigorosa forza centripeta.
            Sulla monastica cocolla cassinese, San Benedetto riveste un sontuoso piviale, a sottolineare quel permanente impegno liturgico e orante che caratterizza da secoli la missione ecclesiale dei Benedettini. Il manto liturgico è fermato al centro del petto da un ricercato razionale, vero punto di equilibrio tra la compostezza del busto, dove risiedono gli organi vitali del pensiero e del sentimento, testa e cuore, e la scomposta dinamica del panneggio sottostante. Dalla mano sinistra emerge il pastorale abbaziale; esso fa di San Benedetto una guida sicura per tutti, il Signifer invictissimus che apre percorsi e orizzonti sempre nuovi.
            Con la mano destra punta l'indice ad indicare la strada: è il condottiero dell'umanità e degli "eserciti di Dio" tra i percorsi bui di secoli pur sempre marcati dal messaggio e dalle radici cristiane. Il volto, tra le rughe di una saggezza maturata negli anni di una lunga vita, incorniciato da una fluente barba, emana una composta serenità e pare accennare un castigato sorriso ricco di paterna e umana comprensione, giusta interpretazione della disapprovazione che Benedetto fa nella sua Regola del riso smodato e gratuito.
            È il San Benedetto tramandatoci dai Dialoghi di San Gregorio Magno. In una notte del VI secolo "...mentre ancora i fratelli dormivano, l'uomo di Dio Benedetto anticipò l'ora della preghiera notturna alzandosi per le vigilie. Stava in piedi alla finestra pregando il Signore onnipotente, quando improvvisamente vide, nel cuore della notte, una luce diffusa dall'alto che fugava tutte le tenebre della notte. Era luce splendente di tale chiarore che, pur irradiandosi tra le tenebre, superava la stessa luce del giorno" (Gregorio Magno, Dialoghi, lib. II, cap. XXXV).
            È il San Benedetto elevato a Patrono d'Europa, colui che nelle tenebre riesce sempre a vedere una fusam lucem desuper cunctas noctis tenebras exfugasse. E prosegue San Gregorio: "Una cosa mirabile fece seguito in questa visione, come poi egli raccontò: il mondo intero come fosse raccolto sotto un unico raggio di sole, fu portato sotto i suoi occhi". È la capacità dei santi di allargare lo sguardo sull'umanità intera, di vedere il mondo anche nelle piccole cose della ferialità, in un solo raggio di sole.

            La postura dell'intera scultura soggiace a una mezza torsione. Essa ne ravviva il movimento e garantisce diverse prospettive allo sguardo di chi cerca una introspezione dell'opera mentre scruta, dal basso di un alto piedistallo, i particolari di questa statua insieme pacata e pervasa da nervosa inquietudine. È proprio il piedistallo che garantisce allo spettatore (che vede la statua da un punto di vista molto più basso di quello improvvisamente utilizzato per le riprese fotografiche) l'illusione che lo spazio si raccolga in un baricentro e che la dimensione della finzione artistica soppianti quella della realtà sensibile.
            Sul piedistallo, ispirato da quello posto al centro di Palazzo Odescalchi a Roma, campeggiano in un bel carattere romano i titoli giustamente attribuiti a San Bendetto nel Breve Apostolico che lo proclamava, quaranta anni orsono, Patrono Primario d'Europa: Pacis Nuntius, Unitatis Effector Europae, Civilis Cultus Magister, Auctor Monasticae Vitae.
            L'area di sistemazione della statua è stata progettata dall'architetto Giuseppe Picano che ha voluto slanciare ancor più la scultura creando l'illusione di una piccola altura dalla quale svetta San Benedetto sapientemente illuminato da luci direzionali che anche di notte ne garantiscono lo spettacolo.
            Ecco che con il posizionamento di questa statua di San Benedetto, anche il popolo che si onora di custodire da quasi quindici secoli le spoglie mortali del Patrono d'Europa colma una lacuna. Sarà una traccia che la storia recente dell'ultima guerra mondiale aveva cancellato dagli occhi ma mai dal cuore.

            Don Pietro Vittorelli in "L'Osservatore Romano", 4 marzo 2005, pag. 3
        • Erri De Luca
          • IL TEMPO SALVATO DI GIUSEPPE DUCROT

            Allineati, scoperti: hanno un nome sgualcito in petto e solo un volto per proteggerlo, per impedire che diventi un numero. Sono parte di un contingente, termine che ammucchia giovani uomini e li contiene in una rete a strascico di un anno. Hanno diviso febbri, fiato, buio, cammini d'Aspromonte, turni di guardia, veglie dove ci si racconta il futuro a bassa voce, speranza su speranza, come si progetta un frutteto.

            Con mezzi leggeri, carta, china, pastelli, in turni di servizio e luoghi di fortuna, depositi, cortili, camerate, un soldato ritrae facce d'altri soldati. Ma già da prima trae dai ranghi facce di compagni, staccandoli da ogni fondo, anche da quello in cui alcuni di loro sentono di essere scesi. Sono facce chiamate fuori ad affacciarsi ed essi, docili per un prodigio che bisogna indagare, rispondono. Salgono tratte da un invito che riconoscono, per istinto, amico. Fuori da questi fogli, prima e dopo di essi, c'è, inconfondibile e immediata, l'amicizia.

            I ranghi sono luogo in cui ognuno è tenuto a trascurare il valore della propria persona. Divisa, disciplina sono forme di questa rinuncia. Sotto l'uniforme di comparsa da parata o da trincea il soldato si arrocca nell'attesa. È condannato al tempo, resta a smaltirlo metà come pena, metà come bevuta. C'è chi studia, chi presta gratuitamente la propria capacità di mestiere e, tra i molti che provano ad occupare il tempo, un soldato prova a salvarlo. Se c'è un tempo per serbare e un tempo per gettare, come scrive Qohélet, Giuseppe semina il suo anno di ritratti e serba il tempo. Perché in ogni generazione, se non in ogni scaglione, c'è uno che sente il compito di salvare un pezzo del tempo di tutti. Difficile restare individui in un esercito. Giuseppe cerca nei suoi compagni l'identità schiacciata, ridotta nei centimetri quadrati di un volto e da lì inestirpabile. Così ognuno di questi ritratti risponde a un contrordine generale: riempite le righe, mettete un vostro segno al tempo, ognuno sia se stesso.

            Giuseppe in fretta, negli interstizi degli orari corre con le dita sulla carta, mentre incombe intorno ogni possibile interruzione di quel tempo salvato, rubato all'altro tempo. Molti ritratti si interromperanno e non sarà più possibile finirli. Così corre Giuseppe, un'ora basterà, l'amico è fermo e lascia che la sua faccia s'apra, nome segreto che ognuno serba e solo a tratti cede. Per una volta ancora urgenza e precarietà non hanno nuociuto all'artista.

            Giuseppe presta la sua opera gratuita, non richiesta e perciò stesso, ora che se ne può vedere il frutto, indispensabile. La generosità civile di questo lo esorta, lo spinge a maturità. Ora i ritratti sono un pubblico come dev'essere un pubblico per un artista: ognuno di essi è persona chiamata fuori, sorretta, sporta dal fondo ad essere sé stessa. Dietro di loro e addosso incombe uno sfondo compatto, dal quale forse provengono e contro il quale occupano il campo. Giuseppe estrae da lì questi volti in acerbità di fattezze, in pieno divenire di sembianze, di stili, di cipigli. Mai più saranno così.

            I ritrattisti presumono che l'anima esali al volto, trapeli nei lineamenti. Giuseppe invece non vuole interpretare dei soggetti ma bussa alle facce dei suoi compagni per urgenza di rianimarne l'identità schiacciata, per dare notizia che un se stesso emerge caparbio e indifeso contro l'appiattimento dei ranghi. La gioventù sommaria di ogni volto è indagata con dolore di parte.

            Molti ritratti incompiuti sono rimasti nelle retrovie di questa mostra. Di uno si sente la mancanza perché nemmeno tentato, nemmeno sospettato: l'autoritratto. In francese il verbo cancellarsi si dice: "s'effacer". La cancellazione di sé, "l'effacement", tratto necessario agli artisti come ai santi, è applicato qui alla lettera da Giuseppe che leva la sua faccia dai ritratti del tempo salvato. Questo foglio mancante, più di un ritratto, racconta chi sia Giuseppe Ducrot.

            ERRI DE LUCA, Il tempo salvato di Giuseppe Ducrot, catalogo della mostra (Galleria Carlo Virgilio, Roma, 1991). Pubblicato anche in "Leggere", giugno 1991, N° 32, pag. 32
        • Marco Vallora
          • LA "NAJA" IN NERO E PASTELLO

            Hanno volti scollati dalla noia, cotti dall'insulsaggine di una vita obbligatoriamente concentrazionaria, respirano appena come per non disturbare quella quiete innaturale ed illusoria, per non increspare la miracolosa carnagione di pastello, che regala loro un attimo di certezza e di luce, sottratta alla nullità della vita militare. Anzi, qualcuno di loro, gonfio di dolori, di rabbie e di zuppe trangugiate a dispetto, sembra invadere la prigione del foglio con una tracotanza subito sconfitta. Fisionomie troppo enfiate e già sfatte, per restare diligenti entro la gabbia del "risultato" estetico: e infatti - dilatati, macrocefali nani dell'esistenza - boccheggiano all'estremità della cornice, quasi rubando golosamente quel poco d'aria e di libertà, che è ancora loro concesso. Altri hanno tratti più labili, enigmatici, segreti: sfuggono, come catturati per un attimo dall'acqua fotografica e infida della rassomiglianza: gli occhi spenti, pronti subito a rimettersi in marcia nell'infido cammino della naja.

            Sono i Ritratti in divisa di Giuseppe Ducrot, esposti sino al 20 aprile alla Galleria Carlo Virgilio di Via della Lupa a Roma. Ducrot, ancora giovanissimo, ventenne, esordì qualche anno fa a diciassette anni, con dei taglienti disegni di feticismo del quotidiano, che sorpresero la critica e moltiplicarono l'ammirazione. Annodati di pure linee vuote, dolcemente copiativi - coniugando macchine per scrivere a scarpe da ginnastica, longilinee viscere di biciclette al piccolo corredo cimiteriale di un tavolino da studio - quei disegni tradivano un'allarmante maturità di tratto, che inutilmente si sarebbe potuto riferire a Coctau, o al Picasso del rappel à l'ordre, a Matisse o a David Hockey. Ducrot, sofferentemene istintivo, schivo, ricco di silenzi, e di pieghe interiori, disegna, scava di suo, senza maestri; così come oggi, inattuale, scolpisce nel marmo volti immaginari di antichi imperatori. "Allora forse era più un gioco", spiega riluttante ma subito cedevole, "disegnavo con naturalezza, così come perdevo tempo con i motori delle motociclette. Oggi è un'altra cosa, forse per questo, anche, sono passato dalle cose alle persone, entrato dentro le facce. Persone, non oggetti. Il lavoro ha assunto per me un'impronta, un interesse sempre più importante".

            E lo choc in fondo si è avuto quando Ducrot ha capito che per "salvarsi", per sopravvivere con dignità alle notti, ai pomeriggi vuoti, alle corvè e alle guardie snervanti della vita militare, l'unico vero antidoto, segreto e furioso, non poteva essere che il disegno. Catturare i volti ribelli, distanti, muti dei commilitoni; fermare per un attimo quel vivere violento e vuoto, che sembrava ormai andare definitivamente sprecato, alla deriva; dialogare e salvare gli altri grazie al proprio talento. Come ha scritto il narratore Erri De Luca, in un complice testo introduttivo al catalogo: "Sono facce chiamate fuori ad affacciarsi ad esse, docili per un prodigio che bisogna indagare, rispondono. Giuseppe cerca nei compagni un'identità schiacciata, (...) tempo salvato, rubato all'altro tempo".

            "Lo scienziato pazzo" lo ribattezzano subito, perché quell'arte strana del catturare le somiglianze ha per quei giovani incolti qualcosa di magico, di chirurgico. In meno di un'ora, in spazi inventati, al bar, in uno sgabuzzino delle scope, perfino nelle cucine da campo, tra i boschi, durante le terribili perquisizioni nell'Aspromonte, Ducrot mena rapido le sue sciabolate di pastello, con un'ansia di finire che talvolta ferisce di stupore gli occhi bovini dei suoi sordi ineterlocutori: non dialogano, non li imbarazza nemmeno quello sguardo indagatore, scrutatore. Talvolta un richiamo militare interrompe il lavoro, mangia nel non-finito il bordo del pastello: il ritratto rimarrà incompiuto. Talaltra la pelle sensibile del pastello lascia trasalire come una fuggevole pellicola di intiepidita intimità: sono i ritratti rubati all'aperto, il sole scalda gli animi e scioglie la stessa tecnica pastosa. Già, perché è piuttosto inconsueta la tecnica cui Ducrot ricorre, quella settecentesca del pastello. Ci sono, in mostra, anche bellissimi disegni a grafite o carboncino: il presunto falchetto neo-nazista, il felliniano obeso, il dolente intellettuale che si chiude nelle mani, il malatino, il timido braccio sulle spalle, e senza volto, della disperazione cameratesca. Ma è nella scelta del pastello, che sta la chiave per capire il pudico, inflessibile sguardo di Ducrot. Nel suo bellissimo Critica della Modernità, aprendosi in un lirico Elogio del pastello, come soluzione ai guasti dell'imbelle arte concettuale, Jean Clair canta questa tecnica "asciutta", tutt'altro che "arte del vago e del vaporoso", "creazione fra terra e aria in cui l'elemento liquido non trova posto" e conclude che "la grazia del pastello è di essere al tempo stesso tracciato e macchia, iscrizione e copertura, forma e colore. In esso si abolisce la differenza fra linea e superficie, fra disegno e colore". Come rivela quell'affacciarsi sgomento di vuoto intorno ai ritratti, sfondi muti di dolcissima rabbia rappresa.

            MARCO VALLORA, La "naja" in nero e pastello, in "Il Giornale", 11 aprile 1991)
        • Niccolò Ammaniti
          • LA BENELLATA

            "Ho un amico che ha un sacco di Benelli. Dobbiamo andare."
            "Ma dove?"
            "Non lo so esattamente. Comunque vicino Roma."
            "Ma quando?"
            "Ora!"
            Così parlavamo io e Filippo Ricci.
            Non mi ricordo neanche quanti anni fa erano. Ma io stavo all’università da cento anni e Filippo voleva fare il regista. Vivevamo in una casa che era un magazzino sporco. Non avevamo nemmeno capito quale fosse camera mia e quale fosse la sua. E Filippo aveva un amico che aveva una collezione di Benelli. Moto Benelli. Da quelle degli anni 60 fino a quelle dei primi degli ottanta. Motociclette bruttissime, squadrate con i sedili che sembravano assi di legno, con i freni che fischiavano. Il motore con i cilindri in linea. Destinate a un declino silenzioso. Insomma questo Giuseppe Ducrot, amico di Filippo, aveva una collezione di Benelli in un capannone in campagna, vicino Roma. Una collezione di mostri. E quindi una mattina decidemmo di andare a vederle. Io all’università se ci andavo o non ci andavo non cambiava nulla e Filippo tanto aspettava una telefonata… Non mi ricordo neanche cosa aspettasse. Siamo partiti sulla mia Y10. E dopo un ora siamo arrivati finalmente al capannone. E c’erano le moto. Era vero. Era vero che questo Giuseppe Ducrot era un pazzo che collezionava moto bruttissime in un capannone sopra il Tevere, nascosto da rovi e grano. Ma niente mi lasciava immaginare quello che era nascosto dietro una sfilza di moto arrugginite. Una enorme statua di un cardinale. Alta 4 metri. Coperta di buste e contornata da una schiera di piccoli bozzetti in creta. Sono rimasto a bocca aperta.
            "E questi chi li ha fatti?" Ho domandato a bocca aperta.
            "Io." Ha risposto Giuseppe abbassando la testa, quasi colpevole. Fino a quel momento mi aveva parlato di cilindri e freni a tamburo. Con un tono esaltato.
            Non mi dimenticherò mai quel momento. È stata la prima volta che ho capito di aver capito di aver incontrato un artista. Uno che sapeva fare cose che noi, e la maggior parte di voi, non sapevamo fare. È stata una sensazione netta, precisa, che mi ha fatto percepire che la parola artista non è solo un atteggiamento o una roba scolastica, ma un occhio che ti racconta il mondo.
            Da quel giorno Giuseppe è stato un amico, ma molto di più. Era un uomo che conosceva la materia e la cambiava avendo nella testa un’idea precisa di come quella roba informe sarebbe diventata nelle sue mani grazia e leggerezza. E rispetto. E poi che rapporto c’è tra le Benelli e il Cardinale Barberini?

            N. Ammaniti
        • Patrizia Cavalli
          • DISCORSO PER L'INAUGURAZIONE DELLA STATUA IN BRONZO DI SAN BENEDETTO DI GIUSEPPE DUCROT

            Che io mi trovi qui, io che non sono né storica dell'arte né conoscitrice di santi, a parlare della statua di San Benedetto mentre Giuseppe Ducrot, l'autore dell'opera, se ne sta in silenzio da una parte, dovrà sembrarvi perlomeno strano. Ma è proprio il suo starsene zitto la prima ragione del mio discorsetto. Il fatto è che G.D. dichiara che non ha niente da dire, che avendo già fatto quel che doveva fare, ogni sua parola sarebbe superflua se non impropria, e che d'altronde le opere si compiono in silenzio e una volta compiute non tocca a chi le ha fatte illustrarne in meriti e le intenzioni. E io, da parte mia, non solo gli do ragione ma penso pure che San Benedetto lo avrebbe molto lodato. E infatti nel capitolo della sua Regola dove elenca Gli strumenti delle buone opere non scrive forse: "Non amare le molte chiacchere", e più avanti: "Per amore del silenzio qualche volta ci si deve astenere persino dai buoni discorsi"? Così, senza altro titolo che una lunga amicizia e l'ammirazione per la sua arte, parlo io al posto suo e, assumendo su di me tutta la colpa delle parole, lascio Giuseppe alla beatitudine del suo silenzio, anche perché ha molto lavorato.

            Dunque G.D. ha fatto la statua di San Benedetto. Bene, osserviamo la statua. Ma siamo proprio sicuri che questa è la statua di San Benedetto? Sì, è vero, è stata appena inaugurata in quanto tale, ma per quale ragione noi dovremmo credere che questo sia proprio San Benedetto e non un qualche altro santo? Non certo per le fattezze del viso e per una qualsiasi somiglianza fisica (non ci sono notizie sull'aspetto di Benedetto, e nelle rappresentazioni dei santi la loro reale fisionomia è comunque l'ultima cosa che si va a cercare), e neanche per la presenza di particolari attributi (il corvo, per esempio o le verghe o il serpente), quegli attributi che sono appunto il mezzo più sicuro per riconoscere i santi. No, qui si vede solo un pastorale e un manto vescovile – ma di vescovi santi ce ne sono davvero molti. Un manto vescovile che per di più quasi nasconde la tunica e la cocolla, proprio quelle vesti che potrebbero aiutare a riconoscere l'abate Benedetto.

            Ma allora questa statua che cos'è, chi rappresenta davvero? Ma come, non lo vedete? È evidente, salta subito agli occhi, questa altro non è che l'autentica, veritiera statua di San Benedetto. Dirò di più, di San Benedetto in spirito. E lo è proprio per quelle ragioni che sembravano smentirlo. Ducrot, infatti, con intuito infallibile, pur mascherato di idiosincrasie, ha capito che per rendere pienamente visibile San Benedetto in spirito e il suo significato nella storia della Chiesa e della civiltà occidentale non c'era latro modo che questo. Ossia toglierlo al suo tempo anagrafico e, da quel santo che è, farlo avanzare, come in realtà è avvenuto, quanto più possibile verso di noi, finché non si ferma sotto il peso di un piviale vescovile – lui che non era stato né vescovo né sacerdote. E in attitudine seicentesca – di quel Seicento che per Ducrot, e non solo per lui, è l'ultimo grande periodo dove è ancora possibile rappresentare i santi – liberato il braccio dall'ingombro del manto, la mano protesa in un gesto cedevole a metà tra l'indicare e il benedire, indirizzare il suo sguardo mite verso quel vasto spazio che c'è tra il cielo e la terra, farlo guardare nel mezzo. Perché San Benedetto è proprio questo guardare e stare nel mezzo, questa operosità che trattiene le cose della terra pur pensando al Cielo, questo insieme di discernimento, senso della misura, chiarezza e accoglienza della tradizione, che è anche il meglio della nostra civiltà. In questa statua di G. D. non ci sono arbitrii interpretativi – la vera arte d'altronde non è mai arbitraria – ma piuttosto un'ubbidienza a qualcosa di necessario. La necessità di fare esistere e di rivelare nello spazio fisico dell'opera le molteplici virtù di San Benedetto, che sono virtù non di evidenza drammatica ma di delicato e sagace equilibrio. Non mera illustrazione dunque, ma storia in movimento. Chiunque voglia guardare, tutto questo può vederlo, come potrebbe vedere anche tante altre cose: il modo di arrotolarsi la tunica sul braccio, per esempio, come di chi si tiri su le maniche per lavorare in libertà, o il pastorale appoggiato con noncuranza alla mano sinistra, qualcosa che è lì, un onore e un potere che in verità non lo riguarda, o anche i drappeggi che scavano in profondità, simili alle volute rocciose dei suoi eremi.

            Ma c'è dell'altro. Perché l'identificazione della statua con lo spirito del santo sia completa, bisogna aggiungere che è fatta di bronzo. Forse non tutti sanno quanto lavoro, perizia, esperienza e dedizione siano necessarie perché una statua come questa possa starsene lì sul suo piedistallo per essere ammirata, criticata o ignorata. Mi sono fatta spiegare da Giuseppe, che in questo caso ha parlato, tutti gli stadi attraverso i quali si arriva alla fusione vera e propria, e per meglio capire sono andata con lui in fonderia a vedere da vicino il lavoro dei formatori e dei fonditori. In questa specie di preghiera laboriosa a più voci, attraverso un susseguirsi di creazione e distruzione, di positivo e negativo che cambiando via via materia raggiunge finalmente quell'anima di cera il cui posto verrà preso dal bronzo, ho subito visto un'analogia con le forme di vita monacale istituite da San Benedetto. Il lavoro collettivo, la divisione dei compiti pur nell'uguaglianza, l'ubbidienza reciproca, l'attenzione umile: come dire che la statua incontra il suo santo in un terreno comune, che è quello del fare senza superbia in un movimento continuo di ricostruzione delle rovine, che è appunto la storia stessa di Montecassino. D'altra parte leggendo la vita di San Benedetto, così come è narrata da Gregorio Magno, quel che più colpisce è il genere dei suoi miracoli, quasi mai spettacolari ma intesi soprattutto al risanamento. Benedetto è un santo che accomoda quel che è rotto, recupera quel che è perso, organizza ciò che si disperde e rende leggero quello che pesa, sempre lottando contro le avversità e gli ostacoli, ossia contro il diavolo, e uscendone sempre vincitore. È avvenuto anche un paio di giorni fa, quando il marmo del piedistallo continuava a crollare, sì, a detta di tutti c'era proprio il diavolo col forcone, ma ancora una volta San Benedetto ha vinto e la prova è qui, indubitabile, davanti a noi.

            Patrizia Cavalli
        • Lucetta Scaraffia
          • "Volti del sacro, ritorno all'umano"

            Sotto lo storico monastero dei benedettini, a Cassino, presto sarà inaugurata una statua di San Benedetto. Un avvenimento importante: celebra il quarantennale della sua proclamazione a patrono d'Europa. Ma soprattutto segna una novità nel panorama dell'arte sacra in Italia.

            Dopo tante statue che, per segnalare la loro modernità, presentavano un'immagine semplificata, talvolta fino alla rozzezza, del soggetto sacro, qui vediamo finalmente una statua bella, eseguita con grande perizia tecnica, ben rifinita, più vicina a Bernini che a Giacometti, in cui il soggetto, lungi dal venire semplificato e "pauperizzato", è vestito del sontuoso manto da abate e brandisce un ricco bastone pastorale.
            Come se non bastasse, col dito indica la strada, assumendo quindi pienamentela funzione di guida spirituale dell'umanità verso il Dio cristiano.

            A qualcuno, distratto, potrebbe sembrare una copia dell'antico, ma la nervosa inquietudine che pervade il santo, pur nella posa e nell'abito solenni, ne rivela la modernità.
            Lo scultore Giuseppe Ducrot è, infatti, perfettamente consapevole della sua scelta antimoderna. Le sue opere in "stile antico" sono una risposta critica e provocatoria alla semplificazione astratta e spesso incomprensibile a cui di frequente l'arte sacra si riduce. Una semplificazione che arriva alla cancellazione del volto divino, fino a scegliere il vuoto. Ciò significa incapacità dell'arte di rappresentare il divino o l'incomprensibile e, in definitiva, un'accusa a questo mondo, un odio a ciò che questo è.

            "Siamo molto lontani, quindi – ha scritto Alain Besançon, autore di analisi fra le più acute sull'arte sacra e la sua crisi – da un'arte sacra che insegni al fedele che la religione può dare origine a un equilibrio, a una pace, a una felicità e, nell'arte, a una celebrazione di ciò che esiste." Un'arte cioè che sappia superare le imperanti tendenze iconoclaste e nichiliste raffigurando invece volti umani a immagine del divino, volti che il fedele "riconosce" e ai quali può rivolgere una preghiera. Il Benedetto di Ducrot è chiaramente cristiano, autorevole, rimanda alla complessa intensità spirituale che sanno esprimere le raffigurazioni sacre della grande tradizione barocca.
            Scegliere il barocco come riferimento significa scegliere doppiamente l'immagine, perché si tratta del periodo in cui la Chiesa cattolica – di fronte all'iconoclastia protestante ammantata di purezza antimaterialista – ribadisce l'importanza dell'incarnazione e, quindi, il diritto a rappresentare il sacro con immagini umane. Ducrot (giovane scultore che ha all'attivo l'altare del duomo di Norcia, un reliquiario di Filippo Neri per la chiesa romana di San Giovanni dei Fiorentini e una bella scultura in marmo di San Girolamo) invece di guardare al mondo delle gallerie d'arte contemporanea, ha preferito riscoprire un modo tradizionale di vivere il ruolo dell'artista, lavorando su richiesta dei commitenti (anche se vincolanti) e rivolgendosi ad un pubblico più vasto di quello dei critici, che non solo vuole vedere una bella statua ma vuole anche "usarla", com'è sempre accaduto per l'arte sacra.

            Ducrot, che non si definisce credente ma ama misurarsi con l'intensa spiritualità dell'arte del passato, vince l'imbarazzo tutto moderno a rappresentare con volti umani e belli il sacro e vive la sua particolare ricerca di spiritualità all'interno dell'esperienza di scultore, che trasforma la materia dandole un'anima e un volto.

            Lucetta Scaraffia, in "Luoghi dell'infinito", N° 80, anno VIII, dicembre 2004
        • Vittorio Sgarbi
          • L'UMILTÀ DI DUCROT

            Chi entra oggi nella cattedrale di San Benedetto a Norcia, ha la sensazione di vedere in quella chiesa una serie di elementi storici barocchi (l'altare, la sedia episcopale) e una serie di elementi di gusto berniniano, che sembrano approdati lì nel corso dei secoli. Ebbene chi ha questa sensazione sbaglia completamente: le opere che vede non sono opere barocche, ma una condizione stilistica scelta da un artista originale e capace di imprevedibili invenzioni. Mi riferisco a Giuseppe Ducrot che, nel momento in cui scoppiavano in Italia le polemiche, da me anche alimentate, sulla inopportunità di inserire altari nuovi in chiese storiche, fu scoperto dai Benedettini di Norcia. Fu proprio il mio suggerimento di cercare uno scultore antico a cui affidare gli apparati effimeri, gli arredi, le sedie, a far nascere il caso. Questo scultore antico per fortuna c'era, c'è e si chiama Giuseppe Ducrot. È un artista che sembra aver ripreso il suo impegno e il suo lavoro là dove si è fermato Gian Lorenzo Bernini; e quindi con una forma mossa, con un gusto straordinario nei dettagli e una corrispondente capacità di esecuzione, Giuseppe Ducrot può, in una chiesa, inserire un candelabro, inserire un pulpito, inserire un altare che sembra consacrato dalla storia.

            Lo si diceva qualche giorno fa con l'architetto Marco Romano, parlando della casa di Beppe Fenoglio in Alba: ciò che gli architetti non vogliono fare è l'atto di umilt à di non segnare il loro stile e il loro tempo con un'architettura perfettamente riconoscibile, e dove ci sia una lacerazione, avere viceversa l'umiltà di rifare un'architettura che sia simile a quella che esisteva prima e in quello stile; una continuità e una umiltà che avrebbero salvato l'Italia da molti orrori, proprio se si fosse mortificato l'amor proprio di architetti che volevano a tutti i costi sottolineare (quanto più operavano nei centri storici) la loro identità e invece avrebbero dovuto farlo in quelle periferie urbane lasciate nella più terribile sciatteria e dove, al contrario, gli architetti non sembrano degnarsi di dare prova del proprio stile e della propria capacità.

            Ebbene, anche uno scultore, spesso, è troppo segnato dal proprio tempo; essere capaci di liberarsene e con una intelligenza formale assolutamente libera, riprodurre una cosa come sarebbe potuta essere, è la capacità rarissima di uno scultore come Giuseppe Ducrot, che ha compiuto la sua opera nella cattedrale di San Benedetto a Norcia.

            Vittorio Sgarbi, in Il Giornale, 10 dic. 2005, pag. 27